LE FOIBE
Le Foibe
Con il
termine foiba,
che deriva dal latino fovea,
vengono chiamati gli inghiottitoi naturali tipici delle aree carsiche; tali
abissi si prestano assai bene a far scomparire in maniera rapida oggetti di
dimensioni anche notevoli nelle zone in cui la natura rocciosa del terreno
rende problematico lo scavo. In tal senso nella Venezia Giulia (ex province di
Trieste, Gorizia, Pola e Fiume) le foibe vennero largamente utilizzate durante
la Seconda guerra mondiale e nel dopoguerra, per liberarsi dei corpi di coloro
che erano caduti a causa degli scontri tra nazifascisti e partigiani, e
soprattutto per occultare le vittime delle ondate di violenza di massa
scatenate a due riprese - dapprima nell'autunno del 1943 e
successivamente nella primavera del 1945 - da parte del
movimento di liberazione sloveno e croato e delle strutture del nuovo Stato
iugoslavo creato da Tito. Furono principalmente i cadaveri di vittime delle
fucilazioni a essere gettati nelle f. e in altre cavità artificiali, quali, per
fare un esempio, le cave di bauxite dell'Istria oppure il pozzo della miniera
di Basovizza, ma in alcuni casi nell'abisso furono precipitate anche persone
ancora in vita. Talvolta infatti i condannati venivano fatti allineare
sull'orlo della f. e legati fra loro con filo di ferro; successivamente coloro
che venivano colpiti dalla scarica trascinavano giù, insieme a loro, gli altri.
Particolarmente note sono la 'foiba dei colombi' di Vines, in Istria (nella
attuale Repubblica di Croazia), dalla quale vennero recuperati, nel 1943, ben 84 corpi,
e il pozzo di Basovizza, nei pressi di Trieste, divenuto poi monumento
nazionale, in cui nel 1945 venne gettato un
numero imprecisato di persone. Testimonianze dell'epoca raccolte da parte
britannica parlano di alcune centinaia di vittime, mentre da parte italiana
vennero diffuse cifre assai superiori, fondate però unicamente sulla cubatura
dei detriti presenti nel pozzo. Le esplorazioni di tale cavità sono state
ostacolate dalla ingente massa di materiali, compresi proiettili inesplosi, che
vi furono gettati dagli iugoslavi allo scopo di celare la strage, e non hanno
prodotto significativi risultati.
Non tutte le
vittime delle due ondate di violenza hanno però trovato la morte nelle f.:
anzi, buona parte degli scomparsi perì in altro modo, soprattutto nelle carceri
e nei campi di concentramento iugoslavi. Tuttavia, il forte impatto emotivo
derivante dalla scoperta dei primi 'infoibamenti' nell'ottobre del 1943,
ha fatto sì che da quel momento il termine foibe fosse usato per definire nel loro complesso
le stragi avvenute nella Venezia Giulia, mentre infoibati sono stati in genere considerati tutti
coloro che vennero uccisi nel corso delle medesime stragi.
Quanto alle dimensioni del
fenomeno, le stime sono rese problematiche dalla natura delle fonti. Le ipotesi
più attendibili parlano di circa 600-700 vittime per il 1943,
quando a essere coinvolta fu soprattutto l'Istria, e di più di 10.000 arrestati
- in massima parte, ma non esclusivamente, di nazionalità italiana -, alcune
migliaia dei quali non fecero ritorno nel 1945,
quando l'epicentro delle violenze fu costituito da Trieste, Gorizia e Fiume.
Nel complesso, un ordine di grandezza tra le 4000 e
le 5000 vittime
sembra essere attendibile; cifre superiori si raggiungono soltanto conteggiando
anche i caduti che si ebbero da parte italiana nella lotta antipartigiana.
LA TESTIMONIANZA DI UN SOPRAVVISSUTO
Riuscì a sopravvivere
Giovanni Radeticchio di Sisano.
Ecco il suo racconto: "Addì 2 maggio 1945, Giulio Premate
accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un
camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe
Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo Littorio
dove ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati e con la testa all’ingiù
fecero correre contro il muro Borsi, Cossi e Ferrarin. Caduti a terra dallo
stordimento vennero presi a calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero
e poi ripetevano il macabro spettacolo. Chiamati dalla prigionia al comando,
venivano picchiati da ragazzi armati di pezzi di legno.
Alla sera, prima di proseguire per Fianona, dopo
trenta ore di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con pasta nera non
condita. Anche questo tratto di strada a piedi e per giunta legati col
filo di ferro ai polsi due a due, così stretti da farci gonfiare le mani ed
urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio.
Ad un certo momento della notte vennero a
prelevarci uno ad uno per portarci nella camera della torture. Ero l'ultimo ad
essere martoriato: udivo i colpi che davano ai miei compagni di sventura e le
urla di strazio di questi ultimi. Venne il mio turno: mi spogliarono,
rinforzarono la legatura ai polsi e poi, giù botte da orbi. Cinque manigoldi
contro di me, inerme e legato, fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un
secondo mi picchiava col filo di ferro attorcigliato, un terzo con un pezzo di
legno, un quarto con pugni, la femmina mi picchiava con una cinghia di cuoio.
Prima dell'alba mi legarono con le mani dietro la
schiena ed in fila indiana, assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale
Mazzucca da Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Graziano Udovisi da Pola,
Giuseppe Sabatti da Visinada, mi condussero fino all'imboccatura della Foiba.
Per strada ci picchiavano col calcio e colla canna del moschetto. Arrivati al
posto del supplizio ci levarono quanto loro sembrava ancora utile. A me
levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese un paio di giorni prima),
il fazzoletto da naso e la cinghia dei pantaloni. Mi
appesero un grosso sasso, del peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di
filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad
andare da solo dietro Lidovisi, già sceso nella Foiba. Dopo qualche istante mi
spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece
cadere il sasso. Così caddi illeso nell'acqua della Foiba. Nuotando, con le
mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a
cadere gli altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l'ultima
vittima, gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più.
Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi
serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni,poiché i polsi
cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella Foiba per un paio di ore.
Poi, col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba".
LA TRAGICA STORIA DI NORMA COSSETTO
Norma Cossetto era una ragazza di
24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso
l'università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i comuni
dell'Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per
titolo "L'Istria Rossa" (Terra rossa per la bauxite). Il 25 settembre
1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa (espropriazione
proletaria). Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per
spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta
prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si
divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se
avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto
rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo
assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto,
Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria
Valenti, Urnberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda,
Villanova e Parenzo. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti
durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove
Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne
torturata da diciassette aguzzini, ubriachi e esaltati, quindi gettata nuda
nella foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani.
Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio
gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte
socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udí, distintamente, invocare
la mamma e chiedere da bere per pietà...
Il
13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di
Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua
tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di
Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era
caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo
di altri cadaveri aggrovigliati; aveva parti del corpo sfregiate. Emanuele
Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite
d'arma da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri". Norma
aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate
dietro. Da prigionieri partigiani, presi in seguito da militari italiani
istriani, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.
Un'altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: "Cossetto Norma,
rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata
ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e torturata per tutta la notte
da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella foiba".
La
salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di
Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e
obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del
locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante
di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi
avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte
certa. All'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra ..."
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